Agrifood Summit: “Vertical farming, diversificare e puntare su nicchie di valore”

di Elena Consonni

Il vertical farming non sarà forse destinato a sfamare il mondo, ma sicuramente potrà dare il suo contributo nella produzione agricola globale, insieme alle altre tecniche colturali. E’ quanto emerso nel confronto che si è tenuto nell’ambito della seconda edizione dell’Agrifood Summit, l’appuntamento del Sole 24 Ore dedicato alla filiera agroalimentare italiana, che si è tenuto il 10 luglio. 

Sul tema del vertical farming sono intervenute Laura Cammarisano – Postdoctoral Researcher dell’Istituto per l’orticoltura di Leibniz e assistente professore in Orticoltura protetta presso l’University of California Davis – e Stefania De Pascale – docente di Orticoltura all’Università Federico II di Napoli -, che si sono confrontate sulle opportunità e i limiti di questa tecnica. 

“Il vertical farming – ha spiegato quest’ultima – si è sviluppato soprattutto nei Paesi in cui la distanza tra le aree di produzione di cibo e i centri urbani è molto alta, come gli Stati Uniti e alcuni Paesi asiatici. In Italia sono nate delle realtà soprattutto in Lombardia e in generale al nord, mentre al sud è più forte la competitività con altre modalità di agricoltura. Infatti il km 0, che è uno dei vantaggi del vertical farming, va rapportato al luogo dove è situata la farm”.

Sono, invece, punti di forza “universali” del vertical farming il consumo idrico ridotto rispetto ad altre tecniche colturali e l’assenza di uso di pesticidi.

Un elemento che invece può rappresentare una criticità per la sostenibilità ambientale ed economica di un’attività di vertical farming è la gestione della luce. “In un ambiente chiuso – ha sottolineato Laura Cammarisano – si possono creare le condizioni ottimali per migliorare le rese, in termini di quantità e qualità. Razionalizzare la luce è uno dei metodi più efficaci per ottimizzare la coltura, per esempio con opportune condizioni è possibile ottenere lattughe a foglia rossa più croccanti e ben colorate, quindi con un contenuto maggiore di antociani.  Si sta sperimentando l’applicazione di queste condizioni di illuminazione nelle ore notturne, quando il costo energetico è minore, per rendere il processo ancora più efficiente”. 

“Se negli ultimi anni sono stati fatti enormi passi avanti sul fronte dei consumi energetici – ha confermato De Pascale – ora è difficile ipotizzare ulteriori miglioramenti così importanti, ma si può lavorare sulle fonti energetiche, sul posizionamento delle culture per limare l’incidenza di questa voce di costo. La strada che si può percorrere è quella di produrre referenza di nicchia ad alto valore aggiunto e lavorare sulla diversificazione. Credo poi che le tecnologie sperimentate dal vertical farming potranno supportare anche l’evoluzione delle coltura in serra, in termini di miglioramento dell’uso del suolo e dell’acqua e questo è un contributo importante che questa industria può dare all’agricoltura. Bisognerà poi lavorare sul consumatore, che ancora percepisce i vegetali cresciuti in un ambiente chiuso e controllato ancora come qualitativamente inferiori rispetto a quelle coltivate in pieno campo”.

Laura Cammarisano è ottimista sul futuro di questa tecnica colturale. “I fallimenti visti negli ultimi anni – ha concluso – sono un fenomeno temporaneo, dovuto sia alla congiuntura storica, sia al bagaglio culturale attuale del giovane vertical farmer. L’industria è ancora giovane e può contare su relativamente pochi anni di studi. A mio parere c’è bisogno di ulteriore ricerca a carattere multidisciplinare e di una collaborazione tra imprese e ambienti accademici”.   

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